Prima lezione di diritto, Paolo Grossi

Nell’ambito della collana Universale, i tipi di Laterza stanno pubblicando una serie di “libricini” relativi alla “prima lezione” di diverse discipline.

Il giurista Paolo Grossi, Ordinario di Storia del Diritto medievale e moderno presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Firenze, è il curatore della prima lezione di diritto.

In tale volumetto di agevole lettura, l’autore svolge alcune interessanti osservazioni sulla natura ed il fine del diritto.

Partendo dalla considerazione, quanto mai attuale, che per l’uomo di oggi il diritto si presenta come “una realtà ostile”, in quanto percepito unicamente come un comando autoritario imposto dall’alto ed a lui profondamente distante, l’autore si domanda il perché di tale situazione.

La risposta, a detta del giurista, deriva da una scelta politica che affonda le sue origini nella Rivoluzione Francese.

I rivoluzionari del 1789, portando alle estreme conseguenze una concezione totalizzante di Stato tendente a monopolizzare ogni manifestazione del sociale, hanno assiomaticamente identificato la legge, espressione della volontà generale, come l’espressione peculiare del potere sovrano, così rendendola l’unico strumento produttivo di diritto meritevole di rispetto.

In tale opzione politica si viene quindi a dissolvere definitivamente quella nozione di diritto comune di medievale memoria che prevedeva il cd. “pluralismo giuridico”.

La legge, infatti, intesa come espressione della volontà generale, viene ad identificarsi totalmente nel diritto, che può essere emanato unicamente da chi rappresenta la volontà sovrana, ossia lo Stato.           

Per Grossi il “processo di involuzione” del diritto moderno è risultato così inarrestabile: lo Stato, infatti, è sempre – anche se pienamente democratico – un apparato di potere, e dunque la legge è divenuta sempre più un comando; comando generale ed astratto che deve essere sempre obbedito.

A fronte di tale situazione per Grossi è necessario innanzitutto operare “un primo recupero”: il diritto esprime la società non lo Stato.

Il diritto, infatti, non è necessariamente collegato ad una entità socialmente e politicamente autorevole, ma ha quale unico referente necessario per la sua esistenza la società.

Come già insegnato dal citato giurista romano Ermogeniano, il diritto è hominum causa (cioè è fatto dagli uomini per gli uomini). L’essenza del diritto, infatti, non è un comando ma è l’atto di ordinare.

 Tale considerazione evidenzia due ulteriori aspetti:

  1. ordinare (e non coartare) significa sempre rispettare la complessità sociale, che, in tale ottica, costituirà il limite invalicabile alla volontà ordinante che deve tenere conto di tale diversità;
  2. proprio tale diversità determinerà il carattere “organizzativo” del diritto il cui scopo comune è il coordinamento dei diversi attori sociali.

Il diritto, dunque, come ordinamento osservato, costituisce la trama stessa del vivere sociale.

L’ordinamento giuridico autentico, infatti, attinge allo strato di valori primordiali riconosciuti come veri ed autentici da una società, per trarne quella forza vitale che, nascendo da una convinzione condivisa, si consolida in una serie di regole riconosciute.

Seguendo tale percorso, a detta di Grossi, si deve giungere alla seguente convinzione: il diritto viene prima della regola.

La regola, in tale ottica, acquisisce il carattere di una riconosciuta necessaria “osservanza” da parte dell’uomo; osservanza che è cosa ben diversa dalla semplice “obbedienza”.

Il paragone, fatto dall’autore, del diritto con il linguaggio, è in proposito assolutamente calzante.

Per Grossi chi parla in un modo corretto ed idoneo non lo fa tanto per obbedire alle (seppur necessarie) regole che reggono la grammatica e la sintassi, quanto per la convinzione che solo in tal modo è possibile instaurare un efficace rapporto comunicativo con chi ascolta.

Questa è dunque la funzione originaria del diritto: ordinamento di regole autonomamente datesi da una comunità che le osserva in quanto le riconosce come valide per sé.

L’inserimento del diritto in un apparato di potere – che dall’epoca moderna in poi si è configurato come apparato statuale – ha determinato, come sopra visto, la riduzione del diritto ad una funzione di controllo sociale e cioè, in ultimo, in un immenso coacervo di comandi.

Il controllo sociale, infatti, esige, per la sua sopravvivenza, il primato della legge e del principio di legalità. La legge si sovrappone integralmente al diritto. Lo Stato non può più tollerare l’esistenza di altre fonti di diritto, la consuetudine (intesa come ordinamento coscientemente osservato) cede il passo alla statualità normativa.

La sottolineatura dell’autore sul valore della consuetudine è dovuta al fatto che tale fonte, nella sua elementarità, è quella che più rispecchia il diritto allo stato originario; ma Grossi ha ben presente che tale fonte, se ben può ordinare un società a carattere statico ed omogeneo, è assolutamente inadeguata ad ordinare una società complessa come quella in cui viviamo.

Per disciplinare gli inevitabili conflitti della società contemporanea è necessario uno schema generale ed astratto, quale può esserlo solo la legge.

Ciò che l’autore auspica è tuttavia un rinnovamento metodologico che intercorra tra la perenne dialettica tra il momento formativo della legge ed il momento di interpretazione della stessa.

Per Grossi, infatti, pur restando ferma la canonizzazione di regole in un testo normativo, l’adeguamento alla realtà vivente deve avvenire da parte di un interprete che, alla vecchia dominanza del testo riconosca che lo stesso non è e non può essere una realtà autosufficiente e che, per mantenere il suo effettivo ruolo di regolatore dei conflitti, deve essere dall’interprete immerso nella realtà sociale, cosicché solo tale momento di interpretazione/applicazione renderà il diritto sostanzialmente e non solo formalmente positivo. 

Editori Laterza 2003, pagg. 116